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Riti e tradizioni funerarie a Sambiase

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Riti e tradizioni funerarie a Sambiase

postfun1936

di Giuseppe Ruberto

Questa ulteriore ricerca si propone, attraverso un esame comparativo, di individuare e ricostruire quelli che furono presso la comunità sambiasina gli aspetti del culto dei morti nelle sue varie manifestazioni.

Gli usi e le tradizioni del nostro comprensorio presentano fattori abbastanza omogenei(1), con variazioni e diversificazioni che traggono origine soprattutto dalle condizioni economiche, dallo status sociale di appartenenza e talvolta da peculiarità di carattere religioso.

Vediamo così, ad esempio, che si va da bare “tavuti” prontamente fornite dalle pompe funebri, artisticamente intagliate e rivestite all'interno di raso alle proverbiali “quattro tavole”, all'assenza totale di un qualsiasi manufatto la salma veniva seppellita nella nuda terra(1bis). Anche il colore delle bare aveva un preciso significato: bianco per i bambini, grigio-scuro (o marrone) per gli adulti. La vestizione e acconciamento del cadavere erano direttamente connesse alle condizioni economiche della famiglia.

A partire dal 1600 l'abbigliamento funebre poteva derivare dall'appartenenza ad ordini religiosi laici. A Sambiase s’incaricava degli accompagnamenti funebri il sodalizio S.Marco. La cappella S.Marco è annessa all'interno della chiesa di S.Francesco di Paola.

Volendo adesso addentrarci maggiormente nelle credenze e negli usi perpetuati nel tempo osserviamo che quando qualche sfortunato era sul punto di morte, oltre ai congiunti, accorrevano al capezzale numerosi amici e conoscenti. Nel caso di lunghe agonie, la credenza popolare poneva in correlazione le sofferenze del moribondo con dei tabù ipoteticamente infranti. Si riteneva che la lunga sofferenza era la causa di probabili colpe dell’anima e che pertanto il moribondo non riuscisse a liberarsene dal corpo, non riusciva, come si usava dire, a "scasari"(2).

A volte, per poter ottenere la liberazione dell’anima dalle pene del Purgatorio, costoro chiamavano al proprio capezzale il notaio per “porre l’anima al riparo”. Tra questi testamenti che potremmo definire moriens era ricorrente trovare una formula quasi standardizzata per “raccomandarsi a Dio onnipotente”. Nella fattispecie riproduciamo le parti più interessanti tratte da un testamento eseguito dal notaio di Sambiase Antonio Cataldi(3) nel 1773:

“ ……abbiamo ritrovato il suddetto …..infermo di corpo, ma sano per la grazie di Dio di mente, di retta loquela e di mirabile memoria, il quale dubitando della morte ch’è comune a tutti ed incorre la sua ora;ha perciò deliberato farsi l’ultimo testamento. Dopo la premessa iniziale ed i vari giuramenti, il notaio si apprestava ad annotare il volere del Primierante : ”Come fedele cristiano fandosi il segno della santa croce raccomandava all’anima sua all’onnipotente Dio, alla gloriosa Vergine Sua speciale ravvedimento, all’Angelo suo custode ed a tutti i Spiriti Beati affinché purgassero il viale del perdono dei suoi peccati ed alla fine conducessero l’Anima Sua nella celeste Patria in Compagnia dei Beati. Amen...

Per la cronaca, dopo aver trascritto la donazione, il notaio solitamente chiudeva il testamento rivolgendosi al testamentario: “ volete lasciare qualche cosa al Reale Albergo dei Poveri della città di Napoli?” La risposta, era una sorta di prova del nove, sulla pochezza dell’uomo davanti a Dio. Egli, il Primerante affermava: “Non averci che lasciare” mentre il notaio concludeva: “nos requirens nos onde”.

Era credenza popolare correlare alla sofferenza del moribondo le eventuali trasgressioni avvenute durante il percorso della vita.

Tra i tabù ipoteticamente infranti vengono con maggiore frequenza indicati : l'essersi serviti dello strumento più importante della civiltà contadina, cioè dell'aratro, o di parte di esso, per farne legna da ardere oppure l'essersi dissetati “cu l'acqua da lumera nte mani”, cioè mentre si era intenti a sorreggere la lucerna ad olio, ( la credenza in origine è legata al culto della luce e del fuoco); ed ancora l'avere eventualmente ucciso delle serpi nere, nelle quali si ritiene ancora oggi che alberghino le anime di coloro che hanno da espiare qualche pena, cioè delle anime purganti.

I rimedi tradizionali consistevano, ad esempio, nel porre sotto il guanciale del moribondo un pezzetto di giogo o, in altri casi, nell'introdurre in bocca allo stesso un cucchiaio d'acqua.

Al momento del trapasso i parenti del defunto cominciavano a gridare in modo acuto e straziante. A Sambiase vi erano delle donne comunemente chiamate "migere"(4) che avevano il compito ( il più delle volte a pagamento), tra lacrime disperate, ricordare le virtù del morto. Con forti grida e struggenti cantilene, esprimevano il dolore del distacco, arrivando a strapparsi i capelli e persino a graffiarsi il viso. Erano delle lamentatrici di mestiere, le antiche "prefiche": - donne che vegliano il defunto con canti funebri e filastrocche che richiamano episodi della sua vita, chiamate dai parenti che vogliono non solo onorare la memoria del loro congiunto, ma anche dimostrare a tutta la comunità, con questi toni strazianti, quanto sia drammatica la sua scomparsa - .

L'usanza delle grida strazianti in casa e sulla via è plurimillenaria. Ed a proposito dei gemiti e delle urla di dolore delle donne, scriveva C. Alvaro in “Calabria”: «...Questi lamenti, tutte quante queste cose si svolgono tra donne; le donne difatti hanno diritto a lamentarsi, diritto a parlare, ad augurare, a benedire, a maledire; l'uomo ha per la sua qualità una forza impassibile davanti alle gioie e ai dolori. L'uomo, davanti ai grandi fatti della vita, tace!».

Dopo essere spirato, con un fazzoletto (ù maccaturu) si avvolgevano le mascelle e il cranio del defunto, onde evitare che questi potesse trascinare con sè nella morte altri familiari. Ancora oggi la salma, nella camera ardente, viene orientata con i piedi rivolti alla porta. Era usanza, nei tempi passati, che gli specchi venissero celati con un panno nero; mentre nella bara, al di sotto del lenzuolo, veniva creato una sorta di giaciglio con foglie verdi e fresche di agrumi; oggi vengono posti dei fiori. La veglia funebre si prolungava fino al momento dei funerali, interrotta solamente da piccole pause di ristoro offerte da parenti e amici. Si usava anche talvolta tagliare una ciocca di capelli a memoria e per protezione dei congiunti. Se una persona decedeva per disgrazia o assassinio, si usava porre una croce o un piccolo ceppo o “a cona”(5) sul luogo dell'evento luttuoso perchè si riteneva che lo spirito avrebbe continuato a risiedere ivi fino all'età in cui il soggetto sarebbe poi morto per cause naturali.

A seconda che il decesso fosse avvenuto prematuramente, o per disgrazia o per assassinio, in dialetto “di mala morti”, le persone si sedevano a terra in cerchio innanzi al feretro mentre i familiari donne vestite di nero si scioglievano i capelli coprendosi il volto ed il capo con un grande fazzoletto nero(6) arrotolato più volte.

Esse si lasciavano andare a pianti e lamenti invocando il loro congiunto, nella vana speranza che questi potesse tornare in vita: e quando ci si rendeva conto che tutto era inutile, imprecavano: “Disgrazziaaaa….nostra! Mì murìu pàtrimma “, oppure a seconda dei casi “màmmama”, “fhràtimma” o chi altri. Le vedove si coprivano il volto con un velo di crespo nero. Per lungo tempo e, nel caso di donne anziane, addirittura per tutta la vita (soprattutto se la persona scomparsa era un figlio, un marito o un fratello).

Gli uomini, invece, se ne stavano in un’altra stanza che spesso era collocata al piano di sopra(7), portavano la barba lunga fino al trentesimo giorno e, come segno esteriore di lutto, indossavano camicie con i bottoni neri, calze nere, e facevano ricamare orli neri persino sulle giacche. A volte per trenta giorni non si lavavano e non si cambiavano la biancheria intima. Sempre in segno di lutto, sulla porta di casa veniva posta una striscia di panno nero che rimaneva appesa per anni.

Dopo la funzione religiosa il feretro, se apparteneva ad famiglia possidente, veniva posto su una carrozza trainata da cavalli, ( a Sambiase vi erano le pompe funebri del cav. Enrico Maione mentre ù cavallaru -cocchiere- era un tale conosciuto Domenico (Micuzzu) Scarfò) ai lati della quale si ponevano gli amici a tenere i cordoni; talvolta vi era la presenza di complessi bandistici che suonavano marce funebri (famosa era quella del maestro Tommaso Buffone). Il più delle volte la salma era posta su una specie di tavolaccio sorretta manualmente ai lati da stanghe di legno. A volte la bara era trasportata a spalla, nel caso di personaggi di una qualche importanza. In occasione dei funerali dei boss o di ricchi possidenti lo sfarzo era quasi regale.

Gli estimatori d'epoca pronunziavano il discorso funebre sui sacrari delle chiese declamando le lodi e le virtù del defunto; ivi avveniva anche il commiato con la tradizionale stretta di mano in segno di cordoglio.
“A stritta d’hi manu alli parianti” avveniva a seconda l’appartenenza della parrocchia del defunto: se apparteneva alle parrocchia della chiesa di S. Pancrazio e S.Francesco di Paola il corteo si avviava per l’estremo saluto in direzione del rione Braccio; invece se della parrocchia della SS. Maria del Carmine si avviava in prossimità “d’ù strittu” ovvero “alla scinduta d’ù Carminu” presso Rione Cafaldo.

Fino agli anni ‘40 era tradizionale e caratteristica nel nostra comunità sambiasina la processione dei fedeli che il 1°novembre attraversava le vie del paese, recitando il “miserere”, mentre un uomo suonava un campanello e gridava: “ I muarti d’ha Matrici, i muarti d’Ammaculata…..” Ricordano i nostri anziani che i rintocchi delle campane della Chiesa dell’Annunziata annunciavano la morte di un fanciullo.

Nella chiesa dell’Immacolata, posta di fronte all’Annunziata, su richiesta della famiglia e per i decessi avvenuti fuori dal proprio domicilio, viene tenuto il lutto.
A tal proposito annotiamo che esiste, presso delle famiglie agiate di Sambiase, una serie di ritratti post-mortem di fanciulli eseguiti dal pittore Edoardo Fiore tra il 1855 ed il 1905 recentemente catalogati da Giovanni Orlando Muraca(8) .

 

Seguono alcuni dei ritratti post-mortem
postdapostco

postmastpostdeg

 

Nel giorno della morte, quale segno di rispetto verso il defunto, ai familiari in lutto veniva offerto dalla persone più intime (che per l'occorrenza vestivano anch'essi di nero) del cibo di varia composizione, chiamato in dialetto sambiasino “ù cùansulu”. Tale consuetudine derivava anche dal credere che nella casa colpita dalla sventura non si dovesse accendere il fuoco né imbandire mensa per almeno una settimana.

U cùansulu era il vettovagliamento per le persone colpite dal triste evento, che in quei giorni non potevano cucinare (forse perché il cucinare era inteso come momento di allegria ).

Tale cibo era composto da bollito di carne bianca che poteva essere gallina, gallo oppure di colombo (picciùni); assolutamente non di manzo o altro simile. Era tradizione che tale vettovagliamento si dovesse portare a tarda notte affinché i vicini non vedessero, nel senso che era un’azione fatta nascostamente, come un doveroso gesto di solidarietà verso la famiglia in lutto .

In tempi più recenti molte delle tradizioni qui riportate sono scomparse. Attualmente, durante la veglia funebre, gli amici inviano latte, caffè e dolci secchi; l'usanza dell'offerta del banchetto funebre (u cuansulu) é quasi sparita, mentre nei giorni successivi gli amici e i parenti vanno a fare visita alla famiglia in lutto portando, il più delle volte, zucchero e caffè (un tempo erano considerati prodotti pregiati).

Nei paesi della costa ionica reggina invece nella ricorrenza del trigesimo si usava offrire agli intervenuti dei pani benedetti accompagnati anche da elargizioni in moneta per i presenti in condizioni di povertà.

Questi doni mortuari, detti còliva, erano in realtà qualcosa di mezzo tra il pane rituale e il dolce: venivano infatti preparati con un impasto di grano bollito con farina abbrustolita e con l'aggiunta di zucchero, zibibbo o uva passa, mandorle ed erbe odorifere; sulla loro superficie veniva tracciata la lettera alfabetica corrispondente al nome del defunto al centro di una croce tracciata con lo zucchero.

L'usanza si rifà ai più antichi “pasti funebri” o àgapi fraterne del primo cristianesimo. Detti doni o còliva mortuari venivano benedetti prima della messa; alla fine del rito parte rimaneva alla chiesa e parte distribuita ai fedeli presenti.

La sepoltura consisteva in un tumulo di terra con una croce sopra. La salma ( anche oggi) veniva orientata con il volto orientato verso la chiesetta posta all’interno del cimitero. Era uso comune nella ricorrenza della commemorazione dei defunti, parlare idealmente col caro estinto, narrare con delle nenie le sofferenze e il dolore in cui permanevano i vivi. Salvatore Borelli poeta dialettale sambiasino, recentemente passato a migliore vita, immortalò con “Unn' era ppi lla mamma chi ciangia” uno di questi ironici dialoghi :

 

Unn' era ppi lla mamma chi ciangia(9)

Tutti 'nd'avimu mùarti tantu cari,
'u dùa 'i nuvèmbri jàmu a Ili truvàri;
ìu puru cci hàju jùtu, però 'nu jùarnu avanti,
quand'era lla dumìnica di' Santi.
Macàri 'un ti cci addùni 'n'annu sanu
ma chìllu jùarnu ni 'nd'arricurdàmu.
Làmpadi e candili, rosi e cardinali(10),
gigli e margariti e jùri artifhiciali.
Si sa 1'usànza nostra ch'è cchilla di giràri;
ti fhìarmi ad ogni tomba ppi guardari.
Chistu si chjamava Miscimàrru
cha càtti povariallu di 'nu carru
e cchistu è llu ritràttu 'i mastru Ninu,
tant'anni l'hàju avùtu ppi vicinu.
Cumu nu 'mpantasàtu vai guardandu
e ppassi 'na jurnata caminandu.
Diversi vànu sulu ppi chjatàri,
si cci hànu fhattu 'a làpita
o ancora cci hànu 'i fhari.
'Nd'hàjti vidutu puru agenti chi ciangia!
Cùmu 'na muntagnara ch'è capitata a mmìa.
Sintiti cantalèna chi fhacìa
'sta vecchja muntagnara 'i Buculìa(11):
« Mamma cha le fragùne me facia,
cche còre grànne, mamma, che tenia!
E le grispèlle e quantu farinàta
de tànnu cha 'un me 'a fhàzzu 'na manciàta ».
Fhacìa 'nu chjàntu affrìttu e si sgargiàva
e lli capìlli a manna si tirava.
Dopu 'nu pocu m'hàju avvicinatu:
« A quant'è morta? » cci hàju dumandatu.
« E' morta pocu jùarni dop' 'a guerra,
de tànnu è cruvicàta 'nta 'sta terra.
'E sorde ppe 'na tòmma nun l’avìa
e 'nta 'sta terra tocca puru a mmìa.
Ppe cchìssu chjànciu assàe che m'ammazzèra
e all'àutre mùarte 'a tòmma cce sciullèra.
Vedìannu 'ste cappèlle marmiàte
e nnùe sùtta 'sta terra cundannàte !
Puru de mùarti su' privilagiàti
mu stànu 'nte palàzze e nnùe 'nte scantinàte! ».
E ttantu ppi Ila fhàri rassignàri
'nu pocu m'hàju misu a ragiunari:
« Oh zzi', 'stu lùssu chi vidìti è ssùlu mostra
sinnò su' mùarti cumu 'a mamma vostra.
Si 'a morti ccu Ili sordi s'accattèra
màncu 'nu povarìallu cci ristèra.
Chilla ma un guarda Papi e non rignànti,
ssttrunca Ili passi a ttutti i priputènti ».
'Sta vecchja mi guardava cunsulàta,
ppi ppocu nun m'ha ffàttu 'na risàta.
Ed lu pinzzàva dintr' 'a menti mia:
« 'Unn'era ppi Ila mamma chi ciangìa ! ».

 

In conclusione l’antropologo Francesco Faeta(12) nel 1993 fece un vero studio denominato “La mort en images” la cui ricerca antropologica mette in evidenza il trasferimento alla fotografia di credenze e di impieghi funerari presenti in Calabria ed in tutta l'Italia meridionale; in modo particolare la ricerca ebbe come soggetto l'ideologia popolare della morte, le forme di devozione ad esse associate, l’architettura funeraria etc.etc..riguardante i cimiteri della provincia di Catanzaro tra cui quelli di Sambiase, Nicastro,Gizzeria e Falerna.

 

 


 

 

NOTE
1) "Tradizioni e riti della morte"relazione del 1792 del Galanti :

“ «... in occasione di morte de'congiunti il manto nero colla barba lunga che prima si portava dagli uomini per 7 o 8 mesi, ora per uno o due; le donne per 7 o 8 mesi portano la camicia sporca senza mai lavarla. Sussiste il costume delle vedove di non uscire di casa per un anno o sei mesi circa. Ciò si pratica anche nella morte dei figli o fratelli. Le donne si strappano i capelli, de' quali fanno un mucchio nelle mani del morto: uso generale in Calabria. Si costuma associare i cadaveri (cioè accompagnaree trasportare i cadaveri in chiesa o nel luogo di seppellimento) da molte donne parenti o amiche che mostrano il loro duolo con gridi, etc. In Bagnara si lasciano chiuse le stanze dove esce il cadavere per un anno e si usava di strapparsi vicendevolmente tra le congiunte i capelli; in altri paesi alla vedova seduta al centro della stanza o sul gradino del focolare venivano strappati i capelli dalle congiunte, amiche e vicine tra gridi acuti; nella maggior parte dei paesi il morto veniva vegliato a porte e finestre sprangate per tre giorni.... Nei funerali delle persone facoltose vi era invece molto lusso: Si usavano seppellire i cadaveri in casse foderate di velluto con ricami dorati e le spese dei funerali spesso ammontavano a 200 e più ducati.... Alcuni arrivavano a tenere chiusa la finestra per un anno intero. La bassa gente usa portare anche di està ne' lutti un lungo tabarro nero di arbascio grossissimo e il berretto calato avanti agli occhi. Anche i galantuomini debbono far passare almeno un mese senza farsi la barba. Il lutto dei preti è di andare laceri e sporchi.... In alcuni paesi quando muore il marito nella bassa gente la moglie si mette sotto il camino, quale non si accende; si piange mentre le altre femmine sono intorno. Si sbarrano le porte e finestre per tre giorni. La sera poi si stravizza (cioè si stravizia, si gozzoviglia, si banchetta). Il mangiare si porta da’ più stretti congiunti ... Per la morte dei ricchi concorrono a piangere tutti i vicini, a' quali poi si dà lauta cena dal più stretto congiunto del morto per la prima sera e successivamente dagli altri parenti »”.

1bis) Da una ricerca effettuata su documenti parrocchiali troviamo come seppelliti nella nuda terra i forestieri, i briganti o della povera gente che periva fuori dell’abitato;

2) Traslocare, slogiare cambiar di casa;

3) Archivio di Stato di Lamezia Terme,fondo notarile;

4) Già nell'antica Grecia si ricorre, per i funerali, alle donne specializzate nel piangere, che esaltano, a chiome sciolte, i meriti del defunto: un rituale che svolgono con voce cupa, spesso tirandosi via dalla capigliatura vistose ciocche. Nella Roma classica, le lamentatrici hanno una parte importante nel corteo funebre, dove seguono i portatori di fiaccole levando altissime grida di dolore alternate alle lodi del defunto. Risale proprio a questa civiltà il loro nome: infatti il termine "prefica" deriva dal latino "praeficere", ovvero stare a capo, guidare. In questo caso, guidare il pianto: tanto che lo storico latino Festo, le definisce "donne chiamate a lamentare il morto che danno alle altre il ritmo del pianto". Lungo il corteo funebre, seguite da mimi e danzatori, le prefiche accompagnano la salma;

5) Era una nicchia in pietra a forma ovale con dentro l’immagine di Santi corredata avvolta dalla foto della persona defunta in quel luogo;

6) Una sorta di sciarpa nera di cotone detta in dialeto sambiasino“randaghiu”;

7) La maggior parte delle case nel centro storico di Sambiase sono molto strette: “a nu luacu “ (ad un solo vano) e pertanto il defunto per ragioni di spazio veniva posto nella stanza in pian terreno mentre al piano di sopra vi era la stanza da letto ed all’ultimo piano la cucina o “u tavulatu”;

8) "Ritratti post mortem" di Giovanni Orlando Muraca è tratto da : "Un pittore meridionale tra ispirazione religiosa e sguardo antropologico",di Ottavio Cavalcanti (a cura di), Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), pp.23-32 ;

9) La poesia:“Unn' era ppi lla mamma chi ciangia” è tratta dal libro “Duci e Amaru”poesie in vernacolo di Salvatore Borelli;

10) Crisantemi;

11) Frazione montana dell'ex comune di Sambiase;

12) Francesco Faeta è nato a Roma nel 1946. Professore ordinario di Antropologia culturale, insegna attualmente presso l'Università degli Studi di Messina. Ha svolto un'intensa pratica di ricerca etnografica e antropologica nel Mezzogiorno d'Italia e, particolarmente, in Calabria e si è occupato specificamente, dal suo punto di vista disciplinare, di fotografia. Tra le opere principali, Melissa. Folklore, lotta di classe e modificazioni culturali in una comunità contadina meridionale, Firenze, 1979, Imago mortis. Simboli e rituali della morte nella cultura popolare dell'Italia meridionale (in collaborazione con Marina Malabotti), Roma, 1980, L'architettura popolare in Italia: la Calabria, Roma-Bari, 1984, Le figure inquiete. Tre saggi sull'immaginario folklorico, Milano, 1989, Nelle Indie di quaggiù. Fotografie 1970-1995, Milano, 1996, I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino (in collaborazione con Clara Gallini), Torino, 1999, Il santo e l'aquilone. Per un'antropologia dell'immaginario popolare nel secolo XX, Palermo, 2000, Strategie dell'occhio. Saggi di etnografia visiva, Milano, 2003 .

 

 

Materiale bibliografico
Piero Leone e Carmelina Audino - Il cielo della vita -
Scuola Media Statale G.Nicotera - Sambiase:casa mia -

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