Cronache tra il 600 ed il '700

Malcostume, liti, delitti e soprusi nella Nicastro di fine Settecento

di ANTONIO RAFFAELE

Nel 1790 la Principessa Vincenza D'Aquino Pico era rientrata da Napoli nei suoi feudi lametini i quali da molto tempo erano governati da Agenti Generali che agivano in suo nome. La città di Nicastro era pertanto divenuta di fatto proprietà di quattordici famiglie nobili che detenevano non solo l'amministrazione dell'Università, ma il potere economico e sociale della stessa. A riprova di ciò, lo storico Giovanni Maruca narra - con alcune inesattezze - di una lite scoppiata nel 1790 tra un servo della famiglia d'Ippolito, tal Francesco Mazza, ed un attendente della Principessa. Da un'attenta ed approfondita ricerca è emerso che l'anno riportato dallo storico non è esatto, in quanto l'episodio avvenne nell'aprile del 1791, lo stesso, poi, tace sul nome dell'altro contendente, ossia tal Santo Marcello.


La ricostruzione del litigio si è resa possibile attraverso le testimonianze rilasciate nel 1792 da alcuni cittadini che erano
andati a comprare del pesce da alcuni mercanti in sosta all'interno del palazzo della Principessa, tutt'ora esistente, in Via Lissania. Domenico Virello, della città di Catanzaro ma residente a Nicastro, affermava che nel mese di aprile del 1791, non ricordandone però il giorno a causa del lungo tempo trascorso, «ritrovandosi egli davanti la baracca di D. Elisabetta Fabiano sua Padrona, per attendere alcuni suoi ordini, si vidde, che dentro il cortile del Palazzo Baronale situato di rincontro di detta baracca, si vendevano pesci, sicché egli si determinò di andare a comprare mezzo rotulo per suo proprio comodo, e per portarsili nel Marchesato, dove dovea imme-diatamente portarsi per servizio di detta sua padrona; ma siccome vi trovò una grande folla di compratori di detti pesci, così li convenne di aspettare un pezzo prima di poter avere il mezzo rotulo che egli desiderava. In tale occasione vidde, che dopo essersi servita la gente di casa dell'Illustrissima Principessa di Feroleto Padrona, e molti soldati del Bargello, molti altri particolari cittadini affollati prendevano pesci da dentro la sporte colle di loro mani, e li mettevano dentro li respettivi piatti, e tra detti particolari cittadini, che prendevano pesci, vidde che uno era Francesco Mazza d'Antonino, e dolendosi in tanto i pescivendoli. che tutti prendevano pesci, e non esigevano danaro, vidde esso costituito, che dietro tali lagnanze scese dal mezzo della gradiato in cui era fermato, il seruidore del Cav. Adami, da esso testificante ben cognito, il quale si denominava Santo Marcello, scese nel piano del cortile e urtando al suddetto Francesco Mazza e presolo con una mano dalla parte da dietro al collo l'allontanavano dal luogo dovverano i pesci verso la porta di fuora, e proprio fino al gradino del cortile chiamandolo ladro assassino, ove giunto il suddetto Mazza rivolto verso detto Santo Marcello con modo mi-nacciatorio li disse le formate parole: "amico hai ragione voi siete tanti qui, ed io sono solo. » 1
In un altra testimonianza, Domenico Vitale di Nicastro, dichiarò che «verso l'ultima settimana della quaresima del prossimo caduto anno 1791» essendo venuto a conoscenza che nel cortile del palazzo baronale della Principessa di Feroleto si vendevano pesci, vi si recò anch'egli per «comprorsino una libra». Siccome attorno alle sporte dei pesci si era annidata una gran calca di gente che prendeva a piene mani e metteva «dentro li propri piatti», il Vitale capì che non sarebbe riuscito ad acquistare la sua libra e «in tal frattempo intese, che i pescivendoli si dolevano. che i pesci erano finiti, e ancora non avevano riceu(ut]o danaro». A seguito di tale «doglianza, Santo Marcello servidore del Cavaliere Adami, che si attrovava nel primo gradino della scala di detto Palazzo, entrando nella folla diede due o tre urti a mano aperta nella testa di Francesco Mazza di Antonino, che come gl'altri prendeva pesci dalla sporta, e li metteo nel piatto, e doppo detti urti, cercò il suddetto Santo di aver un bastone di uno tra quella folla, ma nien-te altro seguì, si perché il Francesco Mazza si presa da terra il cappello, che egli era caduto, e morsi dandosi al dito, se ne andiede, come ancora perché il Santo Marcello non potè aver il bastone, che ricercava.»
Il Vitale, nella deposizione rilasciata al giudice del tribunale della Vicaria di S. Eufemia, Tommaso Oliva, riportò ancora che appena subita l'aggressione il Mazza disse con risentimento al Marcello «che siccome li suoi Padroni pagavono i loro danari, così dovevano essere serviti; ed il detto Santo gli rispose, che se i suoi padroni volevano pesci non mandavano a lui». 2
In merito ad altre ingiurie proferite da detto Santo Marcello contro di altre persone, il Vitale testificò di non averle affatte intese. 3
Al rientro a casa, il Mazza fu licenziato in tronco dal suo padrone, esponente della famiglia d'Ippolito, che motivò la decisione dichiarando «di non volere al suo servizio una persona la quale si era fatta battere». 4
Fu così che la diatriba degenerò in tragedia, in quanto il Mazza, furioso per il licenziamento patito, decise di vendicarsi uccidendo il servo della Principessa con un colpo di fucile mentre la vittima si trovava sul greto del torrente Piazza per far abbeverare il proprio cavallo. Non ancora pago della sua vendetta, chiamò a sé alcuni componenti della sua famiglia e si recò sotto le finestre del palazzo della Principessa, dove intonò con gli altri canzoni oscene dirette contro la stessa nobildonna.
Donna Vincenza diede ordine alle guardie di non uscire fuori dal palazzo, ma il capo squadra, Pietro Costanzo, chiedeva insistentemente di poter uscire fuori, per il fatto che non solo veniva offesa la sua padrona, ma anche perché quelle insolenze erano indiretta-mente rivolte contro di lui, ma la Signora riconfermò con fermezza il suo precedente ordine. II giorno seguente, tuttavia, il Costanzo cominciò a titolo personale a ricercare i Mazza finché non li scovò a Feroleto dove li fece arrestare e maltrattare; condotti poi davanti alla Regia Udienza furono condannati alla prigione per diversi reati.
Nel 1790 a Pietro Costanzo fu affidato, dal giudice Tommaso Oliva, il compito di catturare vivo o morto il brigante Antonio Ruberto (alias Tingheo) «colla commessa di potere estirpare tutti gli malviventi di ambedue le provincie». II capo squadra della Principessa subito «se ne prese il carico, ed incominciò a girare col suo bargello tutti i luoghi di questo Paraggio per prendere le traccie di tutti gli fuoreusciti, e specialmente della famosa comitiva di Tingheo (...],
Con l'aiuto dei suoi uomini e di guide di volta in volta assoldate, il Costanzo «andava e veniva di giorno, e di notte per i luoghi di questo Paraggio» alla caccia dell'«espressato Tingheo colla sua comitiva.» Furono compiuti numerosi e replicati appostamenti nei boschi in territorio di Marcellinara e Tiriolo.
Per catturare il malvivente, fu decisiva la collaborazione di Giuseppe Donato, amico da molti anni del Tingheo, il quale catturato, malmenato e minacciato dal Costanzo, si dichiarò - a patto di non essere incarcerato - pronto a fare la spia e a consentire la cattura del Tingheo «morto o vivo siccome riuscir si poteva».
Ciò detto, il Costanzo lo liberò, anzi gli diede ferma parola che non solo non lo avrebbe più maltrattato, ma che se la sua collaborazione fosse risultata decisiva entro quindici giorni, gli avrebbe fatto anche una rigolia. II Donato non tardò ad entrare in azione, «ed infatti venuta l'ora del servizio essendo lo stesso Donato con Tingheo in una sua Pagliara nel luogo detto Scorfizzi, dopo aver mangiato e bevuto, e posto a dormire il fuoriuscito», gli tirò un colpo di accetta in testa ferendolo, ma non mortalmente. Temendo la reazione del Tingheo, il Donato si diede alla fuga, indi informò il Costanzo, il quale con i suoi uomini subito si diresse nel pagliaio indicato dove giunsero tardi. Il malvivente, fu comunque catturato il giorno seguente a Serrastretta e condotto dinanzi al giudice Oliva.
II Costanzo, tenne a precisare nell'atto, che il merito della cattura fu tutto suo e che ogni eventuale ricompensa doveva a lui e alla sua comitiva essere attribuita.
Nel 1797 il Costanzo fu protagonista di un altro episodio, stavolta con D. Cesare Corona per il fatto che questi vendeva neve a suo piacimento: il battibecco degenerò con l'omicidio del Corona per mano del figlio dello stesso Costanzo, Giuseppe. La moglie dell'ucciso, Nicoletta Fortunata sporse «querela formale per tale omicidio contro i sudetti Giuseppe Costanzo, e padre Pietro Costanzo, e contro gli istiganti,>. 5 Non sappiamo quale seguito giudiziario ebbe la vicenda, ma per la posizione di cui godevano e la conseguente influenza che esercitavano nella vita pubblica è da supporre che entrambi gli accusati rimasero impuniti. Nel caso del Costanzo padre, poi, si determinò una sorta di immunità come apprendiamo da una testimonianza del 1803, allorquando, al Pietro Costanzo fu inviato ordine di presentarsi presso la Regia Udienza di Catanzaro per cause a noi sconosciute. Questi, impossibilitato a recarsi inviò una lettera a Don Raffaele Ticca, luogotenente e giudice di Nicastro nella quale scriveva che «avrebbe ubbidito, ma siccome la sua decrepita età, un morbo di cecità che lo ha privato intieramente della vista ed altri acciacchi, ed incommodi di salute lo inabilitano a poter tanto adempire».
I dottori fisici Gregorio Pettinato e Pasquale Montesanti, confermandone la malattia, dichiararono che «il magnifico Pietro Costanzo, di età avanzata, ha una deplorabile malattia di occhi, che è la Maurosi, cosicché per esser detta malattia di sua natura incu-rabile, visse da detto tempo in qua rinchiuso in una stanza, e privo intieramente del commercio umano, e con altri 6 acciacchi anche cronici, e particolarmente con affezione reumatica». 6
NOTE
1 SEZIONE ARCHIVIO Di STATO Di LAMEziA TERME (SASL), Fondo notarile.
2 IBIDEM
3 IBIDE
4 G. MARucA, Raccolta di notizie storiche sulla città di Nicastro, Cosenza, 1870
5. SASL, Fondo notarile.
6. SASL, Fondo notarile.


L'articolo è tratto dalla rivista Storicitta di Lamezia Terme, direttore Massimo Iannicelli, n°100, ottobre 2001, pp.10/13